Armatura Farina - il soldato dimenticato
STORIA > libri e documenti
Il Soldato Dimenticato
di Claudio Restelli
Prima Guerra Mondiale. Uomini, Soldati, Vittime ed Eroi. Le armi simbolo della Grande Guerra: la Corazza Farina
Non tutti sanno che... la corazza Farina fu un tipo di protezione individuale in uso al Regio Esercito durante la prima guerra mondiale. Deve il nome al suo ideatore, l'ingegnere milanese Ferruccio Farina.
Le corazze Farina erano un elemento caratteristico delle cosiddette "Compagnie della Morte", gruppi di soldati incaricati di compiere azioni quasi sempre fatali come, ad esempio, uscire dalla trincea per tagliare il filo spinato piazzato dal nemico. Pesavano oltre nove chili ed erano formate da due piastre a forma di trapezio, una anteriore e una posteriore, composte ciascuna da cinque strati in lamiera d'acciaio, leggermente incurvate verso i fianchi, e da due paraspalle mobili. La corazza aveva due bretelle, che il Soldato incrociava dietro la schiena e annodava sul davanti.
Due bracciali fissati all'interno permettevano di utilizzare la corazza anche a mo' di scudo. Ecco come le descrisse Emilio Lussu:
"Le corazze Farina erano armature spesse, in due o tre pezzi, che cingevano il collo, gli omeri, e coprivano il corpo quasi fino alle ginocchia. Non dovevano pesare meno di cinquanta chili. Ad ogni corazza corrispondeva un elmo, anch’esso a grande spessore… l’elmetto copriva la testa, le tempie e la nuca, ma non la faccia".
La ditta costruttrice le certificò come resistenti a colpi di proiettile calibro 6,5 mm del Carcano Mod. 91, esplosi da almeno 125 metri di distanza. La corazza aveva un elmo a calotta in acciaio con soggolo, da 1,6 a 2,8 chili a seconda della taglia, indossato sopra il berretto di stoffa o con una speciale cuffia imbottita. La ditta Farina produsse anche altri tipi di corazze, come la "corazza Corsi", mai adottata ufficialmente dal Regio Esercito ma comunque acquistata informalmente da comandi del Regio Esercito e, in bassi numeri, da altre forze alleate.
Benché fossero presentate come il vertice dei metodi di difesa personale, nella pratica le corazze Farina si rivelarono fallimentari: oltre al peso e alle conseguenti difficoltà di movimento, proteggevano solo il torace e la testa, lasciando scoperto il resto del corpo. Inoltre, bastava un proiettile di calibro leggermente superiore a quello certificato, o una distanza inferiore ai 125 metri, perché il colpo penetrasse agevolmente la corazza.
Anche all'estero si usarono di corazze: le austro-tedesche somigliavano più alle corazze "Corsi". L'uso tattico tuttavia era diverso, distribuite non ai reparti d'assalto e ai guastatori, ma alle vedette e ai cecchini, più esposti a proiettili di rimbalzo e schegge. Furono utilizzate fuori dalle trincee solo sul fronte orientale perché le linee del fronte si trovavano a distanze molto superiori rispetto a quelle del Carso e a quelle del fronte occidentale, e, quindi, i genieri le usavano di notte, anche per tranciare occasionalmente i reticolati nemici. Si trattò di protezioni ausiliarie, non dispositivi strategici capaci di cambiare il corso degli eventi, che sostanzialmente servirono a offrire bersagli facili e relativamente indifesi.
Le corazze Farina vennero citate, con il nome leggermente modificato in "corazze Fasina", nel film Uomini contro di Francesco Rosi. Nonostante il riferimento esplicito, però, quelle mostrate nel film non erano propriamente corazze Farina, bensì "Brewster Body Shield" statunitensi. L'inefficacia di queste corazze è ricordata anche da Emilio Lussu nel suo "Un anno sull'Altipiano" a cui il film di Rosi si ispira.
PER NON DIMENTICARE
Foto ritrae un giovane Soldato, probabilmente Belga, mentre posa indossando la Corazza Farina
Testo tratto da Wikipedia
Bibliografia: Leonardo Raito e Nicola Persegati, "Nella modernità come fantasmi. Esperienze, mitologia e memoria della Grande Guerra", Roma, Aracne
Foto e testo non presenti all'interno del libro
IL SOLDATO DIMENTICATO. La storia di Giovanni Battista Faraldi (Leucotea Edizioni Sanremo).